Al centro culturale di Camorino, prosegue fino il 25 aprile l'esposizione " CREATURALITÀ"

In via Ai Casgnò 11a. nei due piani che occupano una piccola parte del condominio Cà di Julì, della famiglia Donadini; sembra riviva una riflessione assai attinente, alla storia e alle radici di molti luoghi del Ticino, che non sopravvivono nelle prossime generazioni, se non nel volerli ricordare.

Le stalle dove risiedevano mucche e un cavallo, capre e conigli, ora sono abitate dalle immagini dedicate alle stesse mucche e a pecore e agnelli, l'immancabile gatto, e quella penombra, crepuscolare che ci porta sulla soglia del visibile, e dell'immaginario come destino assente e reietto.

DEBORAH TACCHELLA BENCI e LOREDANA MÜLLER hanno portato un dialogo particolare entrambe su carta di cotone, nelle due sale che caratterizzano il piccolo centro camorinense.

Fotografie in bianco nero, con lievi assunti a volte di colore lunare o serale se non notturno nella fotografa, e nella dimensione calcografica un uno a uno, dove commutando barbe e segno, inchiostrazione e colore, la Müller genera affiori, e venera pietra. quasi moti ancestrali tra liquido amniotico e corpi, o ancora metamorfosi vere e proprie. Il tentativo di rilanciare l'esposizione è anche per confermare e dare orari alla giornata del 25 aprile, dove è prevista una conferenza del dottore, analista Junghiano Daniele Benci, Si svolgerà alle 17 la sua conferenza sul tema Creatività-Creaturalità. Lo stesso sabato saremo introdotti all'esposizione da musica e canto dal vivo dalle 16 da Donatello Rossini, che riprenderà alle 18 fino alle 19 per la chiusura della esposizione. Ora tre estratti, partendo dal testo presente in sala di Gian Franco Ragno: in prima istanza,

a seguire un breve estratto da uno breve scritto di una giovanissima critica d'arte, e per terminare una introduzione della conferenza di Daniele Benci.

 

"... Il loro sguardo cattura - in distinte forme a dipendenza dei mezzi espressivi - le pallide e stanche luci serali, prima che siano ancora visibili le tracce, prima di lasciare il testimone alla notte. Orme, sentieri : in comune alle autrici, ancora, mi sembra di cogliere lo stesso percorso fuori dalle mura di un confine domestico, non lontani ma comunque sconosciuti - quanto basta per ritrovare una dimensione antica, originaria.

 

Per Deborah Benci Tachella sono gli animali (pecore, mucche) gli ideali tramiti verso una fase atemporale e astorica : essi si muovono in sequenze poetiche, un ritmo di immagini che presto diventa danza. Rimandano a simbologie antiche, a pittura di genere, senza esserlo per taglio e per inquadratura. (E più tardi, nel corso della notte, curioso e furtivo, un gatto appena uscito da un racconto di Edgar Allan Poe compare a controllare il suo invisibile regno).

 

Attraverso tecniche che Loredana Müller ha messo a punto negli anni – rivitalizzandole - assistiamo nelle sue opere alla nascita di una flora di segni, di un universo naturale ed empirico sotto forma di incisioni, carte e stampe. ..." Gian Franco Ragno

 

"...I momenti attesi al crepuscolo della Benci, immortalati dinamicamente in sfocature che dissolvono i contorni dei suoi soggetti ed al contempo ne accentuano la loro spontanea natura, si rivelano all’occhio come attimi estremamente puri. Agnelli, pecore e mucche, si incontrano, giocano, danzano, emergono da uno sfondo buio come rappresentanti della Natura volti semplicemente a vivere la propria essenza, che l’artista ha saputo cogliere, e di cui ancora si meraviglia. L’immagine fotografica qui scappa dalla sua premonizione di staticità, così come il lavoro calcografico della Müller, primordiale e metamorfico, all’apparenza intrappolato in segni, è invece una continua evoluzione. È così infatti, che nella serie calcografica ‘’Il signor Grillo…’’ (2019) vediamo dapprima l’insetto, ma subito dopo un prete;..." Margherita Arduini

Traccia della conferenza di Daniele Benci

La mostra fotografica e calcografica di Deborah Tacchella Benci e Loredana Müller dedicata alla Creaturalità offre lo spunto per una riflessione sulla crisi pandemica e sociale attuale e più in profondità sulle crisi culturali mitiche ed epocali che hanno creato, nel corso di tre millenni, l’Occidente, la sua potenza immaginale, la sua Arte e infine la Scienza e la Tecnica che ci abita.

Dopo il tramonto del politeismo greco (cosmogonia Olimpica) segnato da un formidabile sviluppo di tutte le Arti, la nostra Civiltà è transitata al monoteismo Giudaico Cristiano che ha intrattenuto un rapporto fortemente ambivalente con la produzione di immagini per oltre 1500 anni segnata dalla controversia fra iconoclasti e imaginisti risoltasi in parte solo col Concilio di Trento (1545-1563 dC).

 

Infine con la morte del Dio cristiano annunciata a ridosso del ‘900 nello Zarathustra dal martello filosofico di Nietzsche, si è prodotta una liberazione delle immagini e la Civiltà Occidentale è così approdata, non senza una sofferta transizione, a nuove “agenzie di significato” e così all’instaurarsi del terzo Mito: un’era dominata dalla Scienza e dalla Tecnica. Questo approdo, intervallato per breve tempo solo dai Nichilismi negativo e positivo, ha tuttavia spogliato le moderne società laiche di un senso profondo dell’esistenza. Da qui la necessità per l’uomo di rivisitare le sue scale valoriali, gli obbiettivi collettivi e individuali collocati a medio e lungo termine, infine l’etica che li regola...."

Creaturalità 

creatività 

 

Per una storia dell’atto creativo. 

Appunti su arte, immaginazione e creatività umana.  

di 

Daniele Benci 

 

 

 

 

 

 

Una  delle  immagini  di  questa  mostra,  un  mazzo  di  calle  steso  a  terra  con  le 

radici  a  vista,  esprime  al  meglio  l’attuale  crisi  sociale,  pandemica  e  culturale  che  ci 

serra  e  ci  spinge  a  un  ripensamento  dei  valori,  dei  progetti  e  dei  fondamenti 

antropologici del nostro pensare, agire, essere pensati ed essere agìti come creature e 

nel  contempo  come  creatori  della  nostra  realtà  psichica  e  fisica.  Ci  fa  riflettere  in 

sostanza sullo stato e grado della nostra salute mentale e corporea, sulla nostra Praxis 

(il  fare  pratico)  e  sulla  nostra  Poiesis  (il  fare  legato  all’arte).  Ammettiamo  che  mai 

come  nell’ultimo  secolo,  come  società  moderna  e  grazie  ai  progressi  della  scienza 

medica,  ci  siamo  chinati  sul  tema  della  malattia  e  della  bonifica  delle  spaccature  che 

la  generano.  Mai  come  nell’ottocento,  dopo  Ludwig  Feuerbach  (1804-1872;  Essenza 

della  Religione,  1845)  e  dopo  il  crollo  delle  religioni  dovuto  alla  sentenza  della 

“morte di Dio” per mano del martello filosofico di Nietzsche, ci siamo interrogati con 

apprensione sul senso della vita umana e sul significato delle nostre singole esistenze 

in  rapporto  al  creato.  Dopo  loro  abbiamo  quindi  assistito,  dopo  il  tramonto  dei  miti 

della Grecità e del Cristianesimo, al sorgere perentorio del “terzo mito” o della “terza 

antropologia” accanto alle arti: la Scienza con la sua Teknè. Con, ma preferibilmente, 

senza Dei. 

E  che  l’arte  sia  riconosciuta  come  necessaria  al  nostro  equilibrio  psichico 

quanto la tecnica è un fatto ormai scontato. 

 

L’inconsueta  parola  Creaturalità  è  un  sostantivo  aggettivato  che  indica  sia 

l’essenza  di  un  oggetto/soggetto,  sia  la  sua  caratteristica  più  pregnante:  essere  nati  e 

far nascere. E’ collegata all’altra parola Creatività (sostantivo) dallo stesso etimo (gr. 

kraino;  san.  kar)  che  significa  fare,  compiere,  realizzare,  foggiare,  generare,  dare 

forma  a  qualcosa  dal  nulla  o  dal  già  esistente  come  sostanze,  idee,  ecc.  A  questa 

radice partecipa anche Kronos (il creatore) ovvero il Tempo. 

 

L’implicazione  di  questi  termini  con  tutte  le  arti  visive,  letterarie,  poetiche  e 

concettuali  è  diretta:  perché  ci  sia  creazione  deve  esserci  un  creatore,  ergo  un 

demiurgo  che  operi  nello  spazio,  nel  tempo  e  secondo  un  principio  motivazionale 

causale  e  finale.  Il  terzo  millennio  dunque,  morti  gli  Dei  e  lo  stesso  Jahweh,  non 

sfugge  all’urgenza  di  fornire  una  cosmologia  che  ponga  nuovo  ordine,  legittimità  e 

significato all’uomo, alla sua venuta al mondo e al suo fare perché da sempre è opaca 

e  controversa  l’origine  del  senso  umano  profondo,  del  suo  sfondo  epistemico  (la 

 

conoscenza),  filosofico,  psicologico,  religioso  e  infine  antropologico.  Ma  solo 

guardando  a  ritroso  di  2500  anni,  solo  dall’incontro/scontro  di  Grecità  e 

Cristianesimo  possiamo  imbatterci  in  quella  frattura  antica  quanto  il  nostro  pensare 

occidentale che spiega il bisogno. 

Il  frammento  30  di  Eraclito  (V  sec.  AC)  indica  e  riassume  la  concezione 

cosmologica del pensiero greco antico: 

“Questo  Cosmo  di  fronte  a  noi  e  che  è  lo  stesso  per  tutti,  non  lo  fece  nessuno 

degli  Dèi  né  degli  uomini  ma  fu  sempre,  ed  è,  e  sarà,  fuoco  sempre  vivente,  che 

divampa secondo misura e si spegne secondo misura”. 

La Bibbia (Genesi) si apre con queste immagini formidabili:  

“In  principio  Dio  creò  il  cielo  e  la  terra.  La  terra  era  un  Caos  senza  forma  e 

vuota,  le  tenebre  ricoprivano  l’abisso  e  sulle  acque  aleggiava  lo  spirito  di  Dio.  Egli 

disse: sia la luce. E la luce fu. Vide Iddio che la luce era buona e separò la luce dalle 

tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. Così fu sera, poi fu mattina: primo 

giorno”. 

Se  escludiamo  la  matrice  comune  di  tutte  le  cosmogonie  e  le  teogonie  che 

distinguono  tra  Kaos  iniziale  (mescolanza  disordinata,  magma,  ecc.)  e  Kosmos 

(ordine,  gerarchia,  legge)  almeno  in  termini  temporali  (Caos  precede  Cosmos  che, 

essendo  de-finito  e  nominato  acquista  senso  e  direzione  in  ordine  del  Tempo  a 

Kronos),  la  ricaduta  della  diafora  (distinctio  o  differenza)  comporta  due  sostanze:  il 

declino  del  politeismo  a  favore  del  monoteismo  e  il  fatto  che  tra  un  mondo  sempre 

esistito e un altro creato vi è l’atto volontaristico di Dio per mezzo del Verbo. 

Ma  vi  è  una  terza  difformità  in  ordine  al  Tempo;  Ciclico  e  composito  nel 

mondo  greco,  Storico  e  limitato  per  il  Cristianesimo  col  Giudizio  Universale  che 

pone  termine  al  Mondo.  Il  greco  riconosceva  concettualmente  quattro  tipi  di  tempo 

(Kronos:  quantitativo  misurabile;  Kairos:  qualitativo  e  opportuno;  Aion:  tempo 

infinito sinonimo di forza vitale, destino; Eniautos: un anno). 

Rispetto  al  Greco  il  Cristianesimo  introduce  quindi  l’idea  che  la  nascita 

dell’Universo sorga da un atto volontaristico di Dio (il Verbo) che nel contempo detta 

le  Leggi  (il  decalogo  o  10  Comandamenti)  alfine  di  regolarlo,  proteggerlo  e 

garantirne la continuità sino alla fine stessa del Tempo con la resa dei conti finale. 

Inoltre mentre nella Grecità e nell’Ellenismo, culla dell’estetica e dell’arte, non 

vigeva  alcuna  restrizione  divina  in  fatto  di  produzione  delle  immagini,  il  secondo 

Comandamento originario ebraico/cristiano recita: 

 

“Non ti farai scultura o immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o 

quaggiù  sulla  terra  o  nelle  acque  o  sotto  la  terra.  Non  ti  prostrerai  davanti  a  loro 

perché io Jahweh, tuo Dio, sono un dio geloso che punisce la colpa dei padri sui figli 

fino  alla  terza  e  quarta  generazione  per  quelli  che  mi  odiano  e  fa  grazia  a  migliaia 

che mi amano e osservano i miei comandamenti”. 

L’ingiunzione divina compresa di quel “Crescete e moltiplicatevi” sovrastando 

e  dominando  la  terra  e  gli  animali  è  perentoria.  Ci  rammenta  il  cinismo  sarcastico  di 

Schopenhauer,  maître  a  penser  dell’ottocento,  che  inchiodava  il  compito  umano, 

quindi  gli  uomini,  a  quello  di  “funzionari  della  specie”  piuttosto  che  di  plasmatori 

pensanti del Mondo attraverso Volontà e Rappresentazione. 

Dunque non pensate, ma ubbidite! Non fatevi immagini ma rispettate i precetti! 

Non cadete in tentazione e semmai pentitevi! Siate come gregge (pecore) guidato dal 

pastore. Indistinguibili l’una dall’altra se non per i peccati. 

Come  a  dire  che  gli  artisti  di  tutte  le  epoche,  uscendo  dal  gregge  e  dalla  sua 

immunizzazione,  saranno  maledetti.  Così  la  libertà  di  rappresentarci  il  mondo,  oggi 

scontata e non di rado banalizzata, avverrà solo per mezzo di una fatica millenaria.  

La proibizione di rappresentarsi il Creato condizionerà per oltre due millenni il 

modo di vivere e concepire l’esistenza e le ricadute determineranno ancora una volta 

il  modo  umano  di  concepire  il  mondo,  di  adattarvisi,  di  forgiarlo,  regolarlo  fin  nelle 

più sottili pieghe dell’etica, della morale, delle leggi e della capacità di Poesis (facoltà 

creativa dell’uomo nel momento in cui si realizza soprattutto nell’attività artistica). 

Nel  concilio  di  Nicea  (787  dC)  si  raggiunse,  in  parte  irrisolto  anche  nel 

Concilio  di  Trento  del  1545-1563),  il  culmine  della  controversia  tra  Iconoclasti 

(distruttori  i  immagini)  e  Imagisti  ovvero  tra  coloro  che  condannavano  l’uso  delle 

immagini come peccato di idolatria e coloro che legittimavano, la produzione e l’uso 

delle immagini per accostarsi al divino. Questa controversia percorre trasversalmente 

tutta la storia dell’arte a partire dalla Bibbia e dal Corano. Ebrei e musulmani ancora 

oggi non ammettono immagini nelle moschee e sinagoghe e se si eccettuano i più noti 

Modigliani, Chaïme Soutine e Chagall, pochi sono i pittori ebrei. 

Ma  se  si  permise  l’uso  di  immagini  alla  condizione  che  fossero  accettate  e 

autorizzate  dalla  Chiesa,  restò  vietata  quella  che  Jung  denominò  quasi  2000  anni 

dopo  “formazione  simbolica  individuale”  ovvero  la  incolpevole  legittimità  della 

produzione  di  immagini  private.  Perché  questa  ostilità?  Almeno  per  due  ragioni 

profonde. 

 

L’immagine  veicola  emozioni  e  con  ciò  tentazioni,  liberando  la  fantasia  in 

direzione  del  diabolico,  dell’idolatria,  del  desiderio  della  roba  d’altri,  della  donna 

d’altri,  della  brama  sessuale,  dell’avidità  e  della  cupidigia.  Perfino  Platone, 

nonostante  ne  facesse  grande  uso,  diffidava  delle  immagini  che  veicolavano  forti 

emozioni  e  interferivano  con  la  limpidezza  dei  concetti:  la  lotta  fra  Logos 

contrapposto  a  Eros.  Fra  l’antico  Dioniso  e  Apollo.  Fra  le  spinte  collettive  e 

l’individualità.  

Solo  dopo  San  Tommaso  (metà  XIII  sec.  d.C)  l’Anima,  a  differenza  dello 

Spirito  che  è  universale,  verrà  riconosciuta  come  unica  e  particolare  rendendo 

l’individuo  singolare  e  irripetibile  in  ogni  suo  aspetto  attraverso  il  “Principium 

individuationis”. Come ci si è potuti emancipare? 

Grazie  alla  presenza  della  romanità.  Il  Cristianesimo  nasce  in  seno  alla  Jus 

romana,  al  Diritto  Romano  e  ciò,  non  senza  travaglio,  ha  contribuito  alla  tolleranza 

per  la  nascita  di  una  teologia  (il  discorso  su  Dio)  che  ha  modificato l’interpretazione 

stessa delle Sacre scritture svincolandole parzialmente dal giogo della lettura letterale 

e  immutabile  del  verbo  divino  attraverso  la  sua  esegesi.  Al  contrario  l’Islam  non  è 

dotato di teologia. 

Col  Concilio  di  Trento  gli  artisti  occidentali,  pur  controllati  dalla  gerarchia 

ecclesiastica,  sono  autorizzati  anche  a  porre  firma  sulle  loro  opere  iniziando  a 

intendere  la  creatività  e  l’Arte  stessa  come  fuoriuscite  dagli  schemi  teologici  in 

contrasto  coraggioso  con  i  divieti,  le  censure,  la  paura  del  vuoto  della  tela  bianca,  il 

timore  del  silenzio,  dell’assenza  di  immagini,  parole  e  segni  e  dell’angoscia  che  la 

morte  arrivi  prima  del  compimento portandoci  all’inferno.  Ma  quale  inferno?  Quello 

biblico? 

Solo  secoli  dopo  si  arriverà  a  comprendere  meglio  ciò  che  intendeva  Antonin 

Artaud (1896-1948) quando affermava che “Nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, 

modellato  costruito  o  inventato  se  non  per  uscire  letteralmente  dall’inferno”. 

Beninteso in nostro personale. 

E  a  comprendere,  in  linea  con  il  grande  Matisse,  che  “La  creatività  vuole 

coraggio!” 

 

 

 

 

 

Creaturalità, creatura, creato, creazione…celebrazione e lode. 

E’  San  Francesco  che,  quasi  900  anni  orsono  nel  suo  Cantico  delle  creature, 

conformemente  ai  dettami  divini,  loda  ed  elogia  tutto  il  Creato  animato  (uomo, 

animali,  piante,  esseri  viventi)  e  inanimato  (fratello  sole,  sorella  luna,  stelle,  terra, 

spazi celesti, vento, aria e acqua, fuoco) tutti partecipi di un dialogo poetico. 

E’  suo  il  parlare  con  gli  uomini  e  gli  animali  (si  ricordi  il  dialogo  col  lupo,  gli 

uccelli  che  inaugura  la  tradizione  il  rapporto  fra  santi  e  animali)  che  introduce  ad  un 

concerto dialogico fra l’uomo, la natura e le sue creature. Ma non è il primo. 

Un millennio prima sarà privilegio del solo Re Salomone, per mezzo della sua 

saggezza  e  attraverso  il  suo  anello  magico,  quello  di  comprendere  il  linguaggio  di 

bestie  e  uomini.  E  solo  duemila  anni  dopo  sarà  Conrad  Lorenz  armato  della  giovane 

scienza etologica ad aprire la decifrazione dei codici comunicativi del mondo animale 

alla comprensione umana e stabilire un dialogo fra l’uomo dotato di parola e le specie 

all’interno della Natura. 

La  caratteristica  di  questi  tre  uomini  è  la  capacità  di  porsi  in  ascolto  e  in 

relazione col mondo extraumano intuendone differenze e uguaglianze concretizzando 

l’idea  di  Hugo  Von  Hofmannsthal  (1874-1929)  che  pensava  i  primi  gradini  dello 

spirito creativo non nel conoscere molte cose ma nel mettere molte cose a contatto. 

Ma  qual  è  la  differenza  fra  umano  e  animale?  Cosa  caratterizza  l’esistenza 

delle diverse creature? 

Martin  Heidegger,  in  Essere  e  tempo,  ci  informa  che  solo  l’uomo  Esiste  (ex 

esse, essere fuori inteso da sé) e va in Estasi, mentre l’animale Insiste (in esse) ovvero 

è  in  sé.  Pertanto  solo  l’uomo  ha  una  coscienza  lacerata  in  quanto  è  “gettato  in  un 

moto vorticoso nel mondo” (Geworfenheit) precipitando, se non sostenuto, al “livello 

delle  cose”  (Verfallenheit,  Niedergeschladenheit):  nello  stato  di  deiezione  ovvero  

“essere negli escrementi” quindi all’inferno. 

D’altra  parte  già  in  Dante  “insistere  (ripetere  automaticamente  per  istinto 

programmato  o  per  condanna  divina  di  contrappasso)  è  per  l’esistente  umano 

l’inferno”. 

Tuttavia  per  Heidegger  alla  “tendenza  cosificante”  (reificazione),  considerato 

che siamo in parte anche animali insistenti, vi è rimedio solo attraverso la “Stimmung 

befindlichkeit”,  la  “situazione  emotiva”  che  è  la  risposta  alla  domanda  “come  va?”. 

 

L’esserci  (Da  Sein)  è  quindi  esistere  emotivamente,  essere  aperti  alla  situazione 

emotiva  la  cui  origine  è  e  resta  oscura  in  virtù  proprio  di  quel  ”essere  gettati 

quotidianamente e angosciosamente nel mondo senza saperne il perché”.  

“Non  è  sensazione  fisica,  ci  informa  Heidegger,  ma  esistenziale”  e  provoca 

angoscia tanto più si vive inautenticamente e senza prospettiva. E’ questo che spinge 

l’uomo a proiettarsi in avanti con i suoi progetti (Entwurfe), con la sua Arte (Kunst) e 

la  sua  capacità  di  Cura  (Sorge,  preoccupazione).  Per  Heidegger,  come  del  resto  per 

Nietzsche  prima  di  lui,  l’arte,  e  in  particolare  la  poesia,  è  essenziale  come  attesta  il 

suo  stretto  rapporto  col  poeta  Hölderlin.  Il  suo  valore  sta  proprio  nel  fatto  che  rende 

l’uomo  “parlante”  sia  nel  linguaggio  enunciato  che  in  quello  taciuto  così  da  creare 

l’apertura  al  proprio  “aver  da  essere  per”  (esistenzialismo,  Da  sein  Analyse).  E’ 

questa la più vasta umanizzazione dell’Ente a confronto con la morte. 

Riprendendo  le  parole  di  Hölderlin  “Da  quando  siamo  in  colloquio  possiamo 

ascoltarci  l’un  l’altro”  e  “Ciò  che  resta  la  fondano  i  poeti“,  Heidegger  giunge 

all’assioma che “gli uomini sono dunque un colloquio! Un dialogo. Un colloquio fra 

gli  uomini  attraverso  la  parola  e  l’arte  che  rappresenta  altrettanti  linguaggi  a  loro 

volta  in  rapporto  fra  lor  poiché  “Nessuna  cosa  è  dove  la  parola  manca”.  Kein  Ding 

sei  wo  das  Wort  gebricht  (Stefan  George)  che  gli  permetterà  di  affermare  che  “La 

poesia è il fondamento che regge la storia” (In cammino verso il linguaggio).  

“Il  linguaggio  è  la  casa  dell’essere”.  Ogni  meditante  pensare  è  poetare,  ogni 

poetare  è  un  pensare.  Pensiero  e  poesia  si  appartengono”  (In  cammino  verso  il 

linguaggio) 

Qui  bisogna  appuntare  una  Critica  alla  filosofia  e  ai  filosofi  che  fanno 

corrispondere l’umanità al solo linguaggio e non a quella funzione che lo precede: la 

capacità  di  produrre  immagini  e  immaginazione.  Per  Nietzsche  difatti  la  pittura,  la 

scultura,  la  musica  e  la  danza  sono  solo  mezzi  artistici:  “la  vera  arte  è  il  poter  creare 

immagini” (La nascita della tragedia).  

In Nietzsche il recupero della grecità, e con essa quello della bellezza dell’arte 

fine  a  se  stessa,  saranno  il  solo  modo  per  contrastare  l’atrocità  dell’esistenza  reale 

data  dal  fondamento  dionisiaco  (che  rende  tutti  uguali  e  annulla  l’individuazione), 

negato,  travisato  e  pervertito  dal  Cristianesimo  nel  suo  mortificare  la  vita  e  la  sua 

volontà di potenza: 

“Per  un  filosofo  è  indegno  dire  che  il  buono  e  il  bello  sono  una  cosa  sola;  se 

poi  aggiunge  anche  il  vero  merita  di  essere  bastonato  (inteso  Platone).  La  verità  è 

 

brutta. Noi abbiamo l’arte per non perire a causa della verità” (La Volontà di potenza, 

1906) 

Il  bilanciamento  del  brutale  Dionisiaco  avviene  dunque  attraverso  l’Apollineo. 

La  bellezza,  la  poesia,  il  pensiero  e  la  creatività  dati  dalla  spinta  vitale  originaria  e 

spontanea  sono  immessi  nella  singolarità.  Tuttavia  è  solo  grazie  al  caos  che 

l’individuo è in grado di generare una “Stella danzante” (Così parlò Zarathustra). 

  E  non  vi  è  successo  e  oltrepassamento  della  nostra  natura  inchiodata 

(Übermensch)  se  non  in  via  creativa  contro  il  peso  della  Morale  cristiana  e  dello 

spirito  di  gravità,  in  salita  come  Zarathustra  (Così  parlò  Zarathustra),  soli  come  lui, 

affaticati come lui. 

Anche  se  Benjamin  sentenzia  che  l’arte  è  entrata  nell’era  della  riproducibilità  

attraverso  la  tecnica  e  i  multipli  riducendo  in  simulazioni  standardizzate  e 

inflazionate tempo e fatica creativa, Vidal diceva che “L’unico posto in cui Successo 

viene prima di sudore, è il dizionario”. 

In questo senso Douglas Coupland è spietato nel rincarare la dose in proposito 

nell’affermare:  “Ci  sono  tre  cose  che  nella  vita  non  puoi  simulare:  competenza, 

creatività e erezioni”. 

 

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